C’erano migliaia di persone davanti al Dakota, il palazzo gotico in cui Roman Polanski aveva girato un film da brividi su una donna che rimane incinta del demonio. Sotto la pioggia battente, uomini e donne di tutte le età, alcuni con un bambino a cavalcioni sulle spalle, alcuni sotto ombrellini colorati, altri lasciandosi annaffiare dall’acqua che scendeva a catinelle dal cielo, alcuni con una bicicletta al fianco, alcuni con un mazzolino di fiori in mano che si bagnava fino a diventare fradicio e piegato all’ingiù come un salice piangente, alcuni con la chitarra a tracolla, alcuni con una birra, alcuni con un bicchierone di caffè, alcuni fumando una sigaretta, alcuni fumando uno spinello, alcuni piegandosi ad accendere una minuscola candela sotto la volta del portone del palazzo, molti con gli occhi arrossati, molti tenendosi per mano, molti piangendo abbracciati, erano accorsi a partecipare al loro intimo cordoglio alla notizia che le radio gracchiavano da ore da un capo all’altro della grande città:
“E’ morto John Lennon”.
Morto assassinato, ucciso a pistolettate da un pazzo che lo aspettava sul marciapiede, proprio lì, dove eravamo tutti noi, davanti al Dakota, dove l’ex dei Beatles viveva con la moglie Yoko Ono, in un grande appartamento di venticinque stanze affacciato su Central Park. Si diceva che il parco, quel polmone di verde nel cuore di New York, la sera ridiventasse un bosco primordiale, un luogo di rapine, stupri, omicidi, dove bande di delinquenti, assassini o forse lupi mannari compivano indisturbati le loro scorribande: dicevano anche che se ci entravi dopo il tramonto eri perduto. Ma l’assassino di John Lennon non era un lupo mannaro, non era uscito da Central Park: aveva preso la metropolitana, con la pistola sotto la giacca, e lo aveva atteso sul marciapiede, per ucciderlo, senza una ragione che non fosse la sua lucida follia e l’ansia di esistere, contare, aver successo, essere qualcuno.
C’ero andato anch’io: in cerca di “colore” per l’articolo che avrei scritto, come aveva chiesto il direttore.
Un hippy di almeno quarant’anni, con una fascia azzurra a trattenergli i lunghi capelli, aveva portato una radio, l’aveva appoggiata sul cofano di un’automobile e la teneva accesa a tutto volume su una stazione che trasmetteva, in segno di lutto, tutte le canzoni più famose di Lennon e dei Beatles. Era la musica che aveva scandito e accompagnato vent’anni di vita dell’Occidente. Vent’anni della nostra vita.
Alle prime note di “Imagine” mi parve di sentire un singhiozzo collettivo che si alzava dalla 72esima strada.
(“Voglio l’America”, Enrico Franceschini, ed. Feltrinelli)
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